L’uomo che sapeva amare. Capitolo 2: Claudia

Contiene scene di sesso esplicito, si sconsiglia la lettura ai minori.

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Quello che le clienti non sapevano, era che anche per lui, certe volte, era difficile parlare di denaro,

che l’avrebbe fatto anche gratis,

che il piacere della loro compagnia fosse già sufficiente come ricompensa.

Claudia era alta quasi quanto lui, e questo le permetteva di abbracciarlo e avvolgerlo come nessun’altra aveva fatto finora. Riusciva a capire la sensazione di protezione che provavano le donne quando cercavano le sue braccia. Il corpo magro, allenato, perfetto, non lasciava minimamente immaginare la sua età, tantomeno il suo viso solare e sorridente. Era quando la sentiva parlare, quando la osservava camminare, quando la guardava negli occhi che capiva quanto fosse spiccata la sua personalità, quanta vita avesse attraversato. Era una dirigente di spicco di una società privata o un avvocato, credeva. Non aveva mai avuto il coraggio di entrare nella sua sfera privata. Aveva paura di scoprire che aveva fantasticato troppo. Quello che aveva capito era che aveva un gusto raffinato e discreto, sia nella sobria eleganza dei suoi abiti, che incutevano rispetto e desiderio, sia nella scelta dei ristoranti o degli alberghi dove lo portava nei fine settimana. L’orgoglio con cui pagava il conto, invece, gli faceva intuire che si guadagnava e si meritava ogni centesimo che aveva, ed erano tanti. Ma quello che lo affascinava di più era la sua intelligenza culturale: poteva parlare di qualunque argomento con sicurezza o ascoltare quello che non sapeva, comprenderlo e farlo proprio. Era un piacere per la mente, passare il tempo con lei. Certo, a volte si incantava a guardare le sue labbra muoversi e riusciva a pensare solo al desiderio di baciarle e di farsi baciare. Quello che lo turbava era il bisogno di essere desiderato da lei. Quando la guardava camminare nei suoi tailleur, con la camicia bianca sbottonata abbastanza da far intuire quanto sarebbe stata bella senza, ma non abbastanza da illudere di avere la possibilità di verificarlo, con le sue scarpe chiuse e con un tacco dell’altezza giusta per non impedirle di essere agile senza rinunciare alla sensualità, con i pantaloni che le fasciavano e esaltavano le lunghe gambe, il suo fascino era tale che si sentiva un uomo invidiato. Lo pagava, è vero, e non voleva complicazioni, ma era pur sempre l’unico che stava frequentando, l’unico che in quel momento aveva la possibilità di vederla nuda, l’unico che ci sarebbe andato a letto. Lei aveva il controllo totale, era lei che si concedeva o che prendeva, non erano gli altri a conquistarla o a dominarla. Si capiva che non era sempre stata così, che la vita, sotto forma di uomini, l’aveva sedotta, posseduta e abbandonata. Ora, era lei a possedere la sua vita e gli uomini. Era quasi una rivincita. E, quanto a seduzione, non era seconda a nessuno. Ma non voleva le complicazioni di un rapporto, soprattutto se sbilanciato: odiava sentire la dipendenza emotiva che gli uomini, inevitabilmente, provavano nei suoi confronti. Le ricordava troppo la sua debolezza passata, ma questo lui lo capì solo dopo. Al momento non era ancora pronta ad affrontare un uomo che fosse alla sua pari, per questo si rivolgeva a lui. Il rapporto era esplicitamente lavorativo e lei, in questo, era bravissima a mantenere una fredda distanza, cosa che la rendeva ancor più desiderabile ai suoi occhi, in un circolo vizioso dall’esito fatale. In effetti, più di una rivincita, era una vera e propria vendetta nei confronti degli uomini. Aveva persino preso in considerazione di rivolgere le proprie attenzioni alle donne, ma aveva presto scoperto che le dinamiche erano le stesse, forse persino più esasperate. L’unica soluzione era pagare gli uomini, anche se i primi tentativi erano stati fallimentari: la maggioranza dei gigolò erano ragazzoni palestrati e pieni di sé che lo facevano solo per soldi e per egocentrismo. Si sentiva umiliata, da quei bamboli gonfiati. Lui, invece, lo faceva per il piacere di soddisfare le donne, di renderle felici. Non si poneva come se lui fosse un premio, una concessione oltre il limite di quello a cui potevano ambire al punto di poter godere dei suoi servizi solo pagando, ma faceva sentire le donne come se il premio fossero loro. Le aiutava ad essere se stesse, senza inibizioni o condizionamenti, le faceva sentire libere e padrone della loro vita, oltre che gratificate, e questo compensava la mancanza di addominali scolpiti o le tempie spolverate di grigio.

L’incontro con lui le aveva evitato una vita monastica, come quella che avrebbe intrapreso se l’ultima chance fosse fallita anch’essa. Quando la conobbe, era così cinica e sfiduciata che, quasi, provocava tenerezza e l’istinto di proteggerla. Non riusciva a capire perché una donna così bella e forte fosse sola, perché gli uomini prima di lui se l’erano lasciata scappare. Si chiedeva quale tremendo segreto nascondesse che li facesse scappare, visto che ora gli sembrava un dono divino irrinunciabile! In effetti, le premesse per una storia diversa dalle altre c’erano già, anche se lui non se ne accorse, abbagliato come era dalla sua aurea. Probabilmente, quello che stava per iniziare era il suo più grosso fallimento professionale, ma gli sembrava l’inizio di una meravigliosa storia d’amore e di una nuova vita insieme, nonostante il loro primo appuntamento lo lasciò perplesso.

Avvenne nel ristorante stellato di un grande albergo del centro. L’ansia con cui aveva aspettato quel momento, un misto di preoccupazione e desiderio, si sciolse non appena la vide entrare. Era raggiante, rilassata e sorridente, come non si sarebbe mai aspettato dalla donna distaccata e professionale che aveva conosciuto il giorno prima. Si rilassò e passarono una serata piacevole, a tratti persino divertente. Scoprì la sua ironia, la sua passione per tutte le forme d’arte e quanto i loro gusti fossero in sintonia. Quando la cena finì, era quasi dispiaciuto. Avevano chiacchierato come buoni amici che si conoscono da sempre ed aveva dimenticato il motivo dell’incontro, che era lì per lavoro. Per cui, quando lei lo invitò a salire nella camera che aveva preso, si accorse di essere piacevolmente stupito e si stupì nuovamente.

In camera fu tutto diverso. Appena entrati, non si erano ancora mai neanche baciati, lei gli slacciò subito i pantaloni e glielo prese in bocca. Potrà sembrare strano, ma lui non ne fu del tutto contento. Non che lei non fosse brava, ma percepiva che non era mossa dal piacere di dare piacere o dal desiderio di lui: la sua era fretta di avere un membro pronto all’uso. Quando lei si fermò, lui la fece alzare e la baciò. Lei gli tolse la camicia e si spogliò, lasciando lui a togliersi tutto quello che aveva dalla cinta in giù. Quando furono entrambi nudi lui, cingendola con un braccio dietro la schiena, la adagiò sul letto e, continuando a baciarla, scese dalla bocca verso il collo e le orecchie, mentre le sue braccia la avvolgevano e la serravano a lui, poi si fermò sui seni, prima il destro, indugiando e sfiorando l’aureola del capezzolo, senza toccarlo, per poi sfiorarlo con la lingua (lei ebbe un sussulto), per poi succhiarlo, sempre più vigorosamente, e tornare a sfiorarlo con la lingua, soffiando sulla pelle umida di saliva, mordicchiandolo e poi baciandolo, prendendo quasi tutto il suo seno nella bocca. Poi si spostò sul seno sinistro, ripetendo lo stesso percorso, per scendere giù fino all’ombelico, sempre sfiorandola con la bocca, facendole sentire più il fiato che la labbra. Qui si fermò poco, giusto il tempo di farle desiderare che ricominciasse la discesa. Infine, quando arrivò con la testa fra le sue cosce, si fece desiderare ancora un po’, restando ad un millimetro di distanza. I movimenti erano lenti, delicati, superficiali. Voleva farla eccitare, farle aumentare il desiderio fino al limite, voleva che il sangue affluisse in quella zona prima di stimolarla bene. Quando, finalmente, infilò la sua lingua e le leccò il clitoride, lei sciolse tutta la tensione provocata dalla prolungata attesa. Gliela baciava come se fosse la cosa più dolce e buona del mondo, con passione e piacere, con il delicato vigore che sapeva usare bene. Era soddisfatto di come stavano andando le cose, sentiva di star dando il meglio di sé e, credeva, con reciproca soddisfazione. Già, perché a lui, innanzitutto, piaceva baciare le donne fra le gambe, avere la testa serrata dalle cosce o tenuta contro il ventre da una mano di lei. Per lui, che vedeva il sesso come un gioco prevalentemente mentale, era la cosa più simile ad una scopata col cervello. Ogni suo movimento non era dettato dall’impulso animale, dall’istinto sussultorio del maschio, ma era il risultato di un’estrema sensibilità, dell’attenzione maniacale alle reazioni della destinataria del tutto. Trovava gratificante far godere le donne, e farlo senza pene gli dava la certezza del risultato. Aveva notato che, se durante una penetrazione le donne potevano fingere per accelerare la cosa senza ferire l’uomo nella sua virilità, quando c’era solo il loro piacere in ballo, lo correggevano o lo interrompevano ma non avevano motivo di fingere, e questo lo tranquillizzava. Questa volta fu interrotto. Lei lo staccò dal suo ventre e gli disse di volerlo dentro. Lui salì, fino ad arrivare a baciarla di nuovo sulla bocca, il suo corpo steso su quello di lei che, nel frattempo, aveva aperto le gambe per accoglierlo. Lui provò a giocare nuovamente, facendole sentire solo la punta, restando all’esterno, provocandola, ma lei lo prese con una mano e se lo infilò dentro. A quel punto lui continuò ad essere graduale, a darle una serie di colpi rapidi alternati a lente penetrazioni fino in fondo, a sbatterla e a coccolarla a fasi alterne. Lei, evidentemente non soddisfatta dal suo tergiversare, lo ribaltò sulla schiena e gli montò sopra. Ora era lei a guidare il gioco, a stabilire il ritmo e la profondità. Quando lei venne, lui si trattenne, con l’intento di continuare e farle provare altri orgasmi prima di raggiungere quello definitivo, il suo. Con sua grande sorpresa, però, questo non avvenne. Lei scese da lui, si coricò sul letto e lo ringraziò. Il suo compito era finito, ora poteva anche andarsene. Non si preoccupò per niente di averlo lasciato senza conclusione, non lo pagava per farlo venire.

Le due volte successive non andarono in maniera molto diversa, tranne che erano stati accorciati i preliminari e lui veniva quando veniva lei. Si trattava sempre più chiaramente di sveltine, una cosa che lui concepiva solo se rischiava di essere visto da qualcuno o nel sesso imprevisto, quello che fa arrivare tardi e felici agli appuntamenti, non certo nel letto di una camera d’albergo pagata per tutta la notte. L’ultima volta, lei non si era neanche fermata a dormirci ed era andata via con lui. Non andava bene. Non era per questo che aveva intrapreso questa professione: lui non voleva essere un mero vibratore umano, lui si vedeva come un tutor o un assistente ma Claudia non gli permetteva di farlo. Doveva affrontare la cosa con lei, se voleva che il loro rapporto si trasformasse da professionale a sentimentale. E, comunque, gli dispiaceva che lei non riuscisse a rilassarsi, a godere delle attenzioni che le rivolgeva, che avesse sempre fretta come se fosse una donna in carriera anche a letto.

L’occasione si presentò presto: un fine settimana in un agriturismo toscano. Accettò l’appuntamento solo a condizione che lei lo lasciasse fare fino in fondo, che lo lasciasse condurre il gioco senza avere fretta di concludere. Voleva che si abbandonasse a lui come si abbandonava nelle spa alle mani sapienti dei massaggiatori. Ecco, quella del massaggiatore era la seconda professione a cui faceva riferimento ideale, quando pensava al suo ruolo, e voleva potersi esprimere al massimo delle sue potenzialità, non solo come un cazzo dritto. Lei, sebbene perplessa e stupita dalla richiesta, accettò, forse senza neanche aver realizzato quanto le sarebbe costato lasciarsi andare.

Qualche giorno prima della partenza, lui le inviò il video di un massaggio tantra per farle capire cosa l’avrebbe aspettata, convinto che avrebbe apprezzato. Lei non rispose al messaggio, benché le spunte colorate gli assicurassero che lo aveva ricevuto e visto. Lui pensò che fosse in imbarazzo (non ci credeva molto, visto il carattere forte e deciso che aveva dimostrato finora) o di essere stato invadente o eccessivo contattandola in quel modo e fuori dagli accordi. In ogni caso, non poteva andare peggio dell’ultima volta che si erano visti, di quei sette-otto minuti frenetici, stavolta l’avrebbe tenuta a letto almeno mezz’ora. Sorrise, pensando al fatto che fosse lui a lamentarsi della rapidità dei loro rapporti: si ritrovava sempre e comunque fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni e questo lo faceva sentire vivo.

In macchina, mentre raggiungevano il posto, le chiese cosa pensasse del video che le aveva inviato. Lei rispose che era in ufficio, quando l’aveva ricevuto, e non aveva potuto guardarlo subito anzi, l’aveva quasi infastidita perché stava partecipando ad una riunione. Sì, ma poi l’aveva visto o no? Cosa ne pensava? Lei aveva difficoltà a rispondere, sembrava in imbarazzo e lui si meravigliò di scorgere una fragilità inaspettata. Gli disse che le era piaciuto, sì, ma che non sapeva se sarebbe riuscita a rilassarsi così, a rinunciare al controllo totale e lasciare che qualcuno si prendesse cura di lei. Il video che le aveva mandato l’aveva scelto con cura: il massaggiatore rimaneva vestito tutto il tempo e si dedicava al piacere della donna senza alcuna reciprocità. Quello che voleva farle capire, fra le righe, era che lui era al suo servizio ma, al tempo stesso, lo stava sottoutilizzando, che se lo avesse lasciato agire senza fretta o frenesia avrebbe potuto goderne oltre le aspettative e senza contropartita, se non lo desiderava anche lei. Voleva che si sentisse protetta, visto che le chiedeva di abbandonarsi, che si lasciasse andare senza per questo abdicare al ruolo di cliente, che si facesse accudire come da un infermiere. Lei lo ascoltava in silenzio, senza lasciar trapelare quello che pensava. Era evidente che le radici del suo blocco fossero intime e profonde, che non erano state causate dalle relazioni sbagliate che aveva avuto ma che, forse, ne erano la causa. Ma lui poteva solo intuirlo dalle sue non-reazioni, dalla sua fredda indifferenza apparente.

Quando arrivarono la trafila fu la solita: alla reception li trattarono come una coppia sposata, poi la consegna delle chiavi all’uomo, nonostante avesse parlato solo lei, assecondando una morale che nessuno realmente seguiva più se non in questi formalismi. Per sovrappiù, la chiamarono con il cognome di lui, fingendo di ignorare che la prenotazione l’aveva fatta lei e che aveva anche lasciato la sua carta di credito. Ci risero sopra, quando furono soli, in camera. La tensione si stava sciogliendo, forse non era poi così rigida, le prospettive erano buone. Quando lei rifiutò la sua compagnia sotto la doccia, lui si ricredette subito, per poi illudersi nuovamente quando lei gli propose un bagno notturno alle terme lì vicino. Ormai era su un’altalena e non poteva più scendere, ma in fondo l’incognita lo divertiva e vedeva le sue resistenze e le sue incertezze come una sfida, una barriera da abbattere per il bene di entrambi. Di entrambi, certo, perché lui non esigeva la reciprocità ma, naturalmente, la desiderava e se non fosse riuscito a sbloccarla non l’avrebbe mai ottenuta.

La notte alle terme fu magica. Non erano i soli a godere delle acque calde, e questo li costrinse ad un contatto fisico che non poteva essere un preliminare diretto per l’accoppiamento. Stavano semplicemente seduti nella vasca, la schiena di lei appoggiata al suo petto, le gambe nude che si strofinavano lentamente l’una contro l’altra, le mani di lui che le carezzavano le cosce e i fianchi, le mani di lei che scorrevano sulle braccia forti di lui, ne misuravano i muscoli, ne valutavano la potenza, calcolavano quanta protezione potessero offrirle. Si sentiva in pace, con lui, sicura, rilassata. Aver escluso dall’equazione mentale la componente sessuale le offrì la possibilità di godersi quel piacere lento e diffuso dei corpi a contatto, delle sue mani su di lei, delle parole sussurrate vicino le orecchie, quelle cose che la frenesia con cui se lo metteva dentro e lo cavalcava furiosamente non le permettevano di scoprire. Quando lui, dall’interno coscia fece salire la mano fino alle mutandine del costume, lei lo lasciò fare pensando che non sarebbe andato oltre. Lui ci andò, iniziando a toccarla con la stessa delicatezza con la quale aveva sfiorato la sua pelle fino a quel momento. Lei fece un accenno di protesta, mise la sua mano su quella di lui come per fermarla, ma lo lasciò continuare, quasi accompagnandolo o trattenendolo lì. Lui le fece notare che, se si fosse agitata, gli altri si sarebbero accorti di quello che stavano facendo, introducendo un alone di pericolo che rendeva la situazione ancora più erotica. Forse fu proprio questo aspetto che le impedì di reagire come le altre volte, che la lasciò immobile alla mercé delle sue dita. Fu l’orgasmo più dolce che avesse mai provato, gli disse mentre, in piedi nell’acqua, lo tirò a sé per stringerlo in un abbraccio pieno di gratitudine e per baciarlo con passione. Ora era lui, con i suoi seni schiacciati sul petto, il suo sedere stretto nelle sue mani e che la spingeva contro il bozzo duro che aveva dentro il costume, con lei che continuava a tenere i loro petti stretti con le sue braccia e ad esplorare la sua bocca, il suo collo e le sue orecchie con le labbra e la lingua calde e focose, beh ora era lui a voler andare oltre, a proporre sottovoce di tornare in stanza. Ci arrivarono continuando a palparsi, toccarsi, sfiorarsi, promettersi e ritrarsi, aumentando il desiderio e rendendo la strada più lunga di quella che avrebbero desiderato. L’ascensore doveva fare solo due piani, ma rischiò di essere la loro alcova, con le mani e le bocche che non riuscivano a stare ferme. Aprì la porta della camera tenendola in braccio, le gambe di lei avviluppate intorno ai suoi fianchi, la sua lingua nell’orecchio e un desiderio ormai oltre il punto di non-ritorno. La adagiò sul letto e le sciolse i laccetti del costume lasciandola nuda; lei gli sfilò il costume e, con una mano dietro il collo, lo tirò a sé per continuare a baciarlo e sentire il suo corpo e la sua pelle su di sé. Erano ancora bagnati, lucidi, scivolosi. Fecero l’amore in maniera semplice, dolce, a tratti lentamente e a tratti fermandosi per gustarsi tutto il tatto possibile. Ogni cellula delle loro pelli stava godendo del contatto reciproco. Vennero insieme, quasi in silenzio come erano stati finora. Avevano parlato i loro occhi, le loro labbra, le loro lingue, le loro mani, le loro pelli, i loro corpi. Le parole erano un di più non richiesto. Si addormentarono stanchi, nudi e abbracciati.

Il mattino dopo non aveva l’oro in bocca. Non capì cosa fosse successo durante la notte, ma Claudia gli sembrava una sconosciuta, di certo non era la stessa della sera prima. Quando si svegliò, lei era già uscita. La trovò seduta sotto un albero, fissava il laghetto davanti a sé e non si accorse neanche del suo arrivo. Quando girò la testa verso di lui, lo guardò con un’espressione assente, distante. Gli disse, più che chiedergli, di andarsene, di lasciarla sola. Alle sue domande, lei rispose quasi urlandogli che non aveva bisogno di lui, che poteva anche chiamare un taxi e tornare a casa, avrebbe pagato lei la corsa. Fu come un pugno allo stomaco, per lui, accompagnato da un gancio al mento. Gli girava la testa, gli ronzavano le orecchie, non riusciva a mettere a fuoco i pensieri ed aveva voglia di vomitare. Eppure era certo che fosse lei, la notte scorsa, alle terme e a letto, non c’erano dubbi! Allora chi era quella che aveva di fronte ora, chi era che lo stava scacciando, chi era che lo chiamava “semplice stallone da monta”? Non gli aveva chiesto di amarla, né di curarla, lei gli aveva chiesto solo di sbatterla e lo pagava per questo. Tentò di prenderle una mano, di sfiorarla, di toccarla, sperava che la memoria tattile gli venisse incontro, che i sensi prendessero il controllo, che il semplice contatto fisico la facesse tornare quella della sera precedente. Non solo non avvenne nessuna di queste cose, ma la sua reazione infastidita fu anche più dura da mandare giù degli insulti che aveva ricevuto fino a quel momento. La lasciò sola, pensando che avesse bisogno di tempo per controllare quello squilibrio ormonale premestruale che, senza dubbio, l’aveva colta durante la notte.

Si rifece viva per pranzo. Appena la vide arrivare si staccò dalla cameriera con cui stava chiacchierando per andarle incontro. Quando le arrivò vicino, si accorse che lo sguardo era cambiato, non era più quello assente di poco prima, era molto peggio. Si domandava cosa potesse aver fatto, di così grave, da giustificare una tale ira e la risposta era inevitabilmente “nulla”. Fu grande la sorpresa che provò quando lei gli fece la più inaspettata delle domande:

“Chi era quella sciacquetta, hai già trovato il mio rimpiazzo? Non hai perso tempo, a quanto pare! Lo sapevo che eri un porco ipocrita e nient’altro! Ma tanto quella vale meno di un mio dito, non meriti nulla più di una cameriera dalla fica moscia!”

Se quelle cose gliele avesse dette la sua compagna, le avrebbe ringhiato contro. Era sempre stato corretto e sincero, nelle relazioni, e la gelosia la vedeva come un affronto, una mancanza di fiducia ma, soprattutto, di conoscenza. Se una donna pensava che avrebbe potuto tradirla, allora non aveva capito nulla di lui e questo lo feriva più di ogni altra cosa perché trasformava la relazione in una conoscenza superficiale e, cosa peggiore, sentiva che il suo amore non era percepito nella sua totale devozione. Devozione che dedicava anche alle clienti: non aveva bisogno di tradirle durante un appuntamento, visto che era chiaro il suo ruolo e, in ogni caso, avrebbe potuto farlo il giorno dopo senza conseguenze. Per tutte queste ragioni, il suo primo istinto fu di risponderle a tono, ma non lo fece solo perché il suo secondo istinto fu di scoppiare a ridere! Con una dolcezza ed una calma che la sorpresero, lui, sorridendo, guardandola negli occhi e prendendole entrambe le mani fra le sue, le chiese:

“Allora non vuoi più che me ne vada?”

E già, perché la gelosia, per quanto insulsa e irrazionale, è pur sempre una dichiarazione di interesse, di attaccamento, quasi di proprietà.

“Ti ho pagato in anticipo fino a domani, ovvio che non voglio!” rispose lei ironica e ricambiando il sorriso.

Si fece accompagnare in stanza, voleva cambiarsi prima di pranzo, in realtà era solo il pretesto per una sveltina riparatrice, cosa che lui stavolta non disdegnò affatto.

A tavola le cose sembravano tornate ad uno stadio precedente agli ultimi due giorni: chiacchiere generiche, superficiali – nei sentimenti espressi, non negli argomenti che, anzi, spaziavano dalle citazioni pittoriche nei film di Kubrick alla teoria delle stringhe passando per l’epistemologia popperiana e finendo nella filosofia trascendentale – , che avevano un solo scopo, evitare di parlare di quello che era successo. Fino a quando, nel pomeriggio, durante una passeggiata fra i boschi della zona, lei ruppe il silenzio confessando che nessuno, prima di lui, si era preso cura di lei, piuttosto l’avevano sfruttata, umiliata, usata senza mai preoccuparsi della sua felicità, del suo benessere, ed era per questo che aveva deciso di essere autosufficiente emotivamente, che si era creata una corazza dentro la quale aveva il controllo totale delle emozioni. Era realmente inaccessibile, non era solo una sensazione, quella che trasmetteva. Non voleva più mettersi in secondo piano nei confronti di nessuno, tantomeno voleva che altri ce la mettessero contro la sua volontà. Voleva dipendere esclusivamente da se stessa ed essere padrona delle sue emozioni, dei suoi sentimenti: visto che nessuno l’amava come voleva, aveva deciso di amarsi da sola. Per questo, ora, la sua vita sembrava piena solo di successi in ogni ambito. Sul lavoro, in palestra, in casa, nelle conversazioni, voleva essere sempre la migliore, quella da raggiungere, quella da ammirare, quella da prendere a esempio. Non chiedeva mai niente a nessuno, casomai se lo prendeva di diritto, di sicuro non implorava mai. Aprirsi? Lasciarsi andare? Cose da adolescenti, gli adulti si curano da soli! Ecco perché quella mattina l’aveva rifiutato, ce l’aveva con lui, perché le aveva dato una cosa che da sola non poteva darsi e le era piaciuta ma l’aveva anche spaventata: il calore umano.

Ora era lui a parlare. Le disse che faceva quel lavoro per motivi analoghi, che anche lui aveva perso la speranza che il prossimo avrebbe potuto mai capire le sue più profonde e intime esigenze emotive, che gli sembrava di aver trovato il modo di ricevere anche lui il calore umano, di sentirsi utile, quasi indispensabile, senza però rischiare la delusione che, inevitabilmente, un rapporto fisso avrebbe portato, prima o poi, perché nessuno ama realmente gli altri senza avere un tornaconto. In fondo, non erano diversi, solo che lui aveva trovato un compromesso, una via di fuga che gli permettesse di non soffrire e, allo stesso tempo, fingere di non essere solo. Le propose un patto: trentasei ore di prova. Trentasei ore, quelle che mancavano al rientro in città, in cui avrebbero provato ad essere se stessi, senza pensare alle esperienze del passato, e a vivere i sentimenti che provavano l’uno per l’altra senza remore, un ultimo atto di fede, l’ultima chance che si concedevano prima di chiudere definitivamente con l’amore. Se in quel lasso di tempo fosse andato tutto bene, lui le avrebbe restituito i soldi e sarebbero stati insieme, se lo voleva anche lei. L’idea di avere un tempo prestabilito in cui potersi lasciare andare, insieme al fatto che erano fuori dai contesti quotidiani e che nessuno poteva riconoscerla, e quindi non avrebbe dovuto giustificarsi o subire pressioni da amici, parenti o colleghi, le fece accettare la proposta quasi senza pensarci.

Quelle trentasei ore furono, con molta probabilità, le più belle trentasei ore nella vita di entrambi. Nessuno dei due avrebbe, in seguito, saputo dire se avessero dormito e per quanto. Erano in uno stato che qualcuno definirebbe estatico: esistevano solo loro, i loro sguardi, i loro corpi, le loro parole. Il mondo si era fermato, o aveva smesso di esistere. Progettarono il loro futuro insieme, sognando di trasferirsi in una nuova città, magari all’estero, e cominciare una nuova vita senza condizionamenti, liberi e felici. Lui le fece persino notare che, nonostante avesse sempre detto di non volersi sentire imprigionata neanche da un figlio, dicendo “quando avremo dei figli” non solo si rimangiava tutto, ma lo dava per scontato e ne voleva più d’uno. Sembrava veramente che avesse deciso di smettere la corazza, di prendersi tutta la felicità che meritava senza fare né conti né sconti.

Quando, la domenica sera, tornarono in città, l’atmosfera fra loro era particolare. In macchina parlarono poco, anche se non riuscirono mai ad interrompere il contatto fisico fra di loro: a turno, c’era sempre una mano che cercava una mano o che si infilava fra il sedile e la coscia dell’altro o che, semplicemente, si appoggiava su una gamba. Di nuovo, comunicavano senza parlare. E si dicevano che solo insieme avevano la forza per essere felici, che erano una sola cosa, che avevano gli stessi sogni e bisogni, le stesse paure. Fu quest’ultimo aspetto, la paura del domani, del rientro nella quotidianità che tanto li opprimeva, che aleggiava su tutti i buoni propositi e li rendeva muti. Nessuno dei due aveva il coraggio di chiedere “e adesso che facciamo, come ci comportiamo, che faremo domani?”, nessuno dei due aveva il coraggio di ascoltare la risposta, nessuno dei due aveva il coraggio di affrontare la questione rimasta in sospeso per trentasei ore: cosa fare del compenso della prestazione. Si cercavano con le mani per assicurarsi che l’altro ci fosse ancora, che la sensazione di allontanamento non fosse reale, si aggrappavano con le unghie a quella felicità così a portata di mano eppure così restia a farsi prendere, così difficile da accettare, così spaventosa.

Si salutarono con un bacio sulle labbra, senza passione, quasi fosse dovuto ma non voluto, formale. Gli occhi di entrambi non brillavano più di ottimistica speranza ma, appannati dal dubbio e dall’incertezza, si sfuggivano, si evitavano per non far vedere la paura che li riempiva. Quella notte, lui dormì poco e male rimuginando sul come si erano lasciati, senza promesse né appuntamenti, preoccupato; lei, invece, crollò sfinita dopo aver pianto a lungo.

Il giorno dopo, nella tarda mattinata, finalmente il cellulare di lui ricevette una notifica. Corse a leggerla, non stava nella pelle. Era sicuramente lei che gli dava il buongiorno, anche se in ritardo, di certo per la premura di non svegliarlo, che gli avrebbe chiesto di vedersi la sera, dopo il lavoro, che l’avrebbe invitato a casa sua, che avrebbero iniziato la loro nuova vita insieme il giorno stesso. Quello che lesse lo costrinse a sedersi, gli fece mettere le mani sul viso per reggere la testa divenuta pesantissima e che il collo non riusciva più a tenere dritta. Non era lei, era il suo conto Paypal: invece di farsi restituire il compenso della prestazione, lei gli aveva inviato il doppio della somma. Senza una causale o un messaggio a parte. Ancora una volta, fra di loro, i gesti parlavano più delle parole.

Stavolta, però, lui aveva bisogno di parole, di spiegazioni, di capire le sue ragioni e di cercare di farla tornare sui suoi passi, era convinto che, se le avesse parlato, lei avrebbe cambiato idea sicuramente, che il solo sentire la sua voce le avrebbe ricordato quello che, di eccezionale, avevano appena vissuto insieme. Era proprio quell’aggettivo, eccezionale, che faceva la differenza, ma lui non l’aveva ancora capito. La chiamò almeno una decina di volte, senza mai riuscire a sentire il secondo squillo prima del fatidico annuncio “l’utente chiamato non è al momento raggiungibile”. Le scrisse su Whatsapp, ma non appariva mai la spunta della lettura da parte sua, provò con gli sms, ma si convinse che, forse, aveva lasciato il telefono a casa o si fosse scaricato, infine la contattò persino su Facebook, sperando che almeno il computer dell’ufficio funzionasse. Nulla. Se non avesse ricevuto il bonifico, avrebbe potuto persino pensare che le fosse accaduto qualcosa. Alla fine, la sera, ormai angosciato e sempre più preoccupato, le chiese di rispondere solo per rassicurarlo che stesse bene, temendo che avesse potuto, persino, fare un gesto inconsulto. Lei lo chiamò.

È curioso notare come il nostro cervello non lavori sempre alla stessa velocità: a volte i pensieri fanno fatica a seguirsi, si perdono per strada, arrivano in ritardo; altre volte, invece, scorrono rapidi e fluenti, toccano più argomenti senza distrarsi, brillano per la lucidità con cui si manifestano e per la completezza delle loro conclusioni. Quella volta, fra il primo squillo del telefono, il vedere che era lei, rispondere e sentire la sua voce, i pensieri che lo attraversarono furono così tanti che sarebbero dovuti durare alcuni minuti anziché pochi istanti. “Se mi chiama, allora vuole parlarmi, quindi vuole spiegarmi la giornata assurda che ha passato e giustificare il suo silenzio, vuole che la convinca a riprendersi i soldi, vuole mantenere le promesse che ci siamo fatti! Non può essere che così, altrimenti si sarebbe limitata a scrivere, non avrebbe chiamato! Si vorrà certamente scusare per l’insicurezza che l’ha fatta tornare temporaneamente sui suoi passi, vorrà dirmi che è stata risucchiata dalla routine, anche mentale, e che aveva avuto paura ma che, dopo un giorno senza di me, visto quanto l’ho cercata, si è resa conto di quanto ci tenga a lei, che anche lei non riesce a stare senza di me, vorrà chiedermi di andare da lei, di raggiungerla e non lasciarla più!

“Si può sapere cosa vuoi da me? Non è stato abbastanza chiaro, il bonifico? Te ne faccio un altro, se vuoi, ma non rompermi più le palle! Io non ti devo niente e tu non hai il diritto di preoccuparti per me, non sono affari che ti riguardano, sei solo una puttana che ho pagato per fare del sesso, neanche tanto buono, se vuoi saperlo! Abbiamo giocato due giorni a fare gli innamoratini, ma era solo questo: un gioco di ruolo! Credi davvero di essere così speciale da farmi innamorare in trentasei ore? Ma quanto sei presuntuoso? Chi ti credi di essere, George Clooney? Sei patetico e neanche così bello! Se insisti a contattarmi ti denuncio! Voglio proprio vedere come giustifichi le tue entrate e come la prenderanno le tue clienti, quando verranno interrogate! Non voglio più avere nulla a che fare con te, non cercarmi mai più, addio!”

Non riuscì a dire nulla, era stato travolto dal suo tono di voce pieno di odio e risentimento, più che dalle sue parole che, pure, lo ferirono come una coltellata al cuore. Non riusciva a capacitarsi di quello che era appena accaduto, non riusciva a trovare una spiegazione. In realtà, non riusciva a pensare, a dimostrazione di quanto il cervello alterni le sue prestazioni senza preavviso e senza rimedio. Pianse fino a sentirsi sfinito, come per un lutto inatteso ed estremamente doloroso. Passò la notte a rivivere tutti i momenti passati insieme, dal primo incontro fino alla sera prima, cercando spiegazioni, indizi, qualunque cosa che potesse spiegare il suo comportamento. Si mise a guardare i suoi profili Facebook e Instagram alla ricerca di risposte, ma anche solo per poterla guardare ancora e ancora e ancora. Quello che lo colpì furono proprio le foto: non la riconosceva! Era lei, ma aveva un’espressione, uno sguardo, un qualcosa di indefinibile che non aveva mai visto dal vivo. Era come se fossero due persone distinte, con due personalità contrapposte. Non era certo, di questo, ma gli lasciava una sensazione di incognito, di inconoscibile, che lo portava a pensare che potesse avere un disturbo bipolare della personalità, cosa che avrebbe giustificato anche il comportamento bizzarro che aveva avuto due giorni prima, all’agriturismo. Del resto, sapeva poco del suo passato, della sua infanzia, delle sue relazioni precedenti, di quello che l’aveva portata ad essere così.

“Non mi interessa quello che hai fatto prima di incontrarmi, se hai fatto errori e quali, sono contento che ti abbiano fatta diventare così. Amo quello che sei oggi, il tuo passato è servito solo a renderti meravigliosa e a portarti qui, da me.”

Si pentiva di averlo detto, di averla interrotta quando aveva provato a parlare di sé. Ora avrebbe voluto conoscere tutti i dettagli della sua vita per poterla capire, per farle cambiare idea, per avere un motivo per tutto quello che stava passando. Sapeva che aveva perso il padre da giovane e che lo aveva cercato negli uomini più grandi di lei con cui era stata, sapeva che non aveva il supporto della madre, chiusa nel suo mondo di preghiere ed apparenze, sapeva che era stata trattata più come un trofeo da esibire che come una compagna di vita, sapeva che si era lasciata trasportare dagli eventi e dalle circostanze più che dal suo cuore e dalle sue esigenze, sapeva che aveva spesso scelto la sicurezza e il conformismo più che l’avventura e la passione. Non molto altro, anzi era stato lui ad effettuare i collegamenti fra le cose che, frammentariamente, lei gli aveva raccontato. Si accorse che lui rappresentava un unicum nella sua vita, da quel che ne sapeva, una fuga dalla morale perbenista in cui aveva vissuto finora, una fuga dal giudizio degli altri, una fuga dai ruoli imposti dalla società, una fuga verso se stessa. Questo, in effetti, poteva dare un senso a molte cose. La rabbia che le sentì nella voce, invece, non riusciva a capirla. Non riusciva a capire perché negava quello che c’era stato fra di loro. Poteva accettare che lei non volesse avere una storia con lui, anche se continuava a non capire il motivo per cui le persone rinunciavano alla felicità, ma non vedeva perché negare di essere stati felici, perché sminuire il sesso fra loro, almeno quello dell’ultimo fine settimana fatale, perché era stata così aggressiva al telefono. Gli venne in mente, nei giorni che passò, abulico, a ripensare a tutto quello che si erano detti, una frase che ora aveva un senso molto meno romantico di quando gliela aveva sentita pronunciare pochi giorni prima:

“Non so se sono pronta ad accettare un amore così totale quale quello che mi offri, non so se lo merito.”

Lui la interpretò come una falsa insicurezza, come una richiesta di accettazione incondizionata, nonostante la finta fragilità, un modo di chiedere protezione e, allo stesso tempo, di accettarla. Una di quelle frasi che supplicano un abbraccio, che lui le aveva dato volentieri, avvolgendola e stringendola fra le sue lunghe braccia, il suo capo sul petto, riempiendole la testa ed il viso di baci e di sguardi pieni di amore e sicurezza. Ora rivedeva la scena con un’ottica diversa, ora capiva che, forse, non stava civettando, non era il gioco dei ruoli ancestrali, dell’uomo virile che salva la donna in pericolo, non era una richiesta di coccole e protezione, forse era solo se stessa, messa a nudo, sincera. Forse era per questo che aveva abbassato lo sguardo, non per farsi prendere il viso fra le mani, alzarlo per guardarla negli occhi e baciarla teneramente. Si sentiva stupido, al pensiero di come avesse frainteso, di come si fosse illuso, di come non fosse riuscito a capirla ma l’avesse interpretata con il filtro dei propri desideri. L’unica spiegazione possibile, si diceva in quei lunghi giorni passati a rivivere ogni istante con lei, a ripetere mentalmente ogni parola, ogni gesto, ogni espressione, è che la durezza, la forza e l’indipendenza che lei manifestava erano solo la maschera con cui nascondeva l’insicurezza che portava dentro dalla morte del padre, avvenuta proprio mentre stava iniziando a diventare un’adulta, una donna. Quel senso di abbandono che aveva provato e che, di conseguenza, le aveva fatto fare sempre le scelte di vita più conservative, quelle che la facevano sentire accettata, quelle che la facevano sentire desiderata, quelle che la facevano sentire unica come lo era per suo padre. Sin dai tempi dell’università, quando non colse l’occasione per andare a studiare lontano da casa ed emanciparsi da un ambiente più attento alle apparenze che alla realtà dei sentimenti, poi gli uomini che avrebbero messo in imbarazzo la madre ma che le davano uno status sociale invidiabile, il sesso di provincia, quello che trasgredisce e si vergogna, quello fatto di tresche e tradimenti ma quasi mai di separazioni e scandali. Lui le offriva la possibilità di lasciarsi tutto alle spalle.

Ora il quadro gli si faceva più chiaro, ripassava mentalmente ogni momento con lei per cercare delle conferme che trovava in una frase, in una reazione, in uno sguardo abbassato. Anche la scenata di gelosia per la cameriera toscana era un tentativo di fuggire e di metterlo, contemporaneamente, alla prova. E tutto l’astio che gli aveva urlato al telefono era rivolto contro se stessa, che non aveva il coraggio di essere libera, di essere amata come voleva. Non si sentiva all’altezza del suo amore, non sentiva di meritarlo, forse proprio perché non si perdonava per essersi tradita così tanto e così a lungo. Ed ebbe la bella idea di continuare a farlo! Sorrise, amaramente. Forse era stata proprio la sua capacità di vederle dentro, anche se aveva sbagliato nel valutare quanto le avessero spento la voglia di essere felice, forse il fatto che lei si sentisse esposta, senza maschera, quando stavano insieme, forse era stato proprio il suo amore incondizionato nonostante tutto quello che vedeva, la sua totale accettazione, a farla scappare. Si pentì per la seconda volta di averle detto che amava il suo passato perché l’aveva resa quello che era, stavolta perché, in realtà, odiava quel passato che la faceva allontanare da lui, che gliela portava via.

Prima di congedarla dai suoi pensieri, prima di archiviarla in quei cassetti della memoria pieni di cose belle che ci hanno fatto soffrire, quei cassetti che non devono più essere aperti se non dopo anni, aveva bisogno che lei avesse qualcosa che glielo avrebbe ricordato, una zeppa che lasciasse il cassetto socchiuso. Le inviò una lettera in cui lui le illustrava le conclusioni a cui era arrivato, accompagnata da una copia de L’amore ai tempi del colera. L’avrebbe attesa per tutta la vita. Dopo aver spedito il pacco, si sentì un po’ folle: dei sentimenti così profondi per una donna che aveva frequentato per meno di due settimane, contando tutte le volte che si erano visti, lo facevano sembrare uno squilibrato ossessivo e temeva che lo potesse pensare anche lei. A contrastare questo pessimismo, venivano in soccorso i ricordi di tutte le parole d’amore che lei gli aveva detto spontaneamente, i sogni che avevano condiviso. Ormai era troppo tardi:

Vada come deve andare” si disse, “in fondo è lei che si è comportata da pazza ed è scappata senza spiegazione, ci manca pure che mi senta in colpa se ho cercato di riconquistarla!

Ora che ce l’aveva con lei si sentiva finalmente libero, sentiva che poteva andare avanti, che la finta rabbia che provava fosse un pretesto sufficiente per accettare la sua assenza.



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8 pensieri su “L’uomo che sapeva amare. Capitolo 2: Claudia”

  1. “Era evidente che le radici del suo blocco fossero intime e profonde, che non erano state causate dalle relazioni sbagliate che aveva avuto ma che, forse, ne erano la causa. ”

    Non erano state causate ma ne erano la causa…. Non è affatto chiaro.

    Perchè lui non dice il motivo per cui è innamorato di lei? Non dice cosa ha lei di diverso dalle altre.

    Il finale mi ha molto stupito. Bravo, un happy end sarebbe stato obsoleto. 😉

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    1. Non è chiaro perché lui non conosce quasi nulla del suo passato, quindi non sa quale possa essere la reale causa, se una freddezza data da genitori anaffettivi, da una sua insicurezza emotiva che nasconde dietro la scorza quasi autoritaria che ha sul lavoro o da altro…
      Lui è innamorato di lei perché è indipendente, perché non ha bisogno di lui, perché se sceglie di stare con lui non lo fa per colmare un vuoto o per insicurezza, ma è una scelta consapevole, libera…

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      1. E cosa dovrebbe vedere il lui di cosí speciale da potersi innamorare? Perchè una donna deve per forza stare con un uomo? Tutti si aspettano che una donna voglia stare in coppia ma non ha diritto di stare da sola se ci sta bene cosí?

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        1. Non capisco l’obiezione: chi ha mai negato (a chiunque) la libertà di scelta? L’amore non è una cosa unilaterale per cui, se io amo, sono automaticamente ricambiato. Anzi, il più delle volte questo non avviene!
          Inoltre, non c’è nulla di speciale da cercare, la sintonia può esserci anche fra persone semplici, non bisogna essere dei supereroi perché ci si innamori di noi, basta essere sinceri…

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