Mentre tornava a casa dal parco del quartiere, Alberto ripensava alla coppia che aveva vivacizzato la mattinata dei pensionati come lui. Era confuso, non sapeva cosa provare: da un lato, era ammaliato dalla gioventù dei due ragazzi, dal loro amore cristallino e puro come solo a vent’anni si può avere, prima che la vita lo inquini; dall’altro, era segretamente eccitato dall’eros che vibrava intenso fra i due, anche se eccitato nel senso fisico era un bel po’ di tempo che non gli capitava più di esserlo e, del resto, la sua Marianna era morta da quasi dieci anni, a che sarebbe servito? Segretamente eccitato, perché la libertà sessuale era ancora una cosa delle generazioni successive alla sua, per non parlare della bisessualità. Non è che le condannasse, è che semplicemente non appartenevano alla sua educazione e non lo avrebbe mai confessato pubblicamente.
A casa c’era Pallino ad aspettarlo, un gatto bianco a palle nere. Spesso lo prendeva affettuosamente in giro, dicendogli che quelle erano le uniche palle che gli fossero rimaste. Anche questa era una cosa che non capiva: perché castrare un animale che non sia un vitello o un pollo? Il manzo ed il cappone sono buoni, ma un gatto? Era stata sua nipote Caterina ad insistere e, alla fine, lo aveva fatto a sua insaputa. Certo, ora non aveva più la casa che puzzava di urina, ma a che prezzo? Era giusto infliggere una mutilazione per comodità? Era dovuto diventare vedovo, per capire che è meglio non avere istinti piuttosto che vederli frustrati, ma non aveva smesso per questo di sfottere l’eunuco felino.
Aveva appena messo sul fuoco il pentolino con il sugo per riscaldarlo, lo spezzatino lo avrebbe mangiato a cena, quando suonò il campanello. Dallo spioncino vide solo le sue chiavi di casa che oscillavano giganti. Era Samantha, la figlia quindicenne della vicina di casa che, rientrando da scuola, le aveva viste inserite nella toppa esterna. “Signor Alberto, un giorno o l’altro si dimenticherà anche di entrare?” disse ridendo. Era la persona più simile ad un nonno che avesse e lo trattava con affettuosa leggerezza, senza mai mancargli di rispetto o diventare invadente. O, almeno, era quello che faceva ora che era cresciuta, perché solo pochi anni prima non perdeva l’occasione di ignorare i richiami dei genitori per intrufolarsi in casa sua e giocare con il gatto ogni volta che si incrociavano sul pianerottolo.
Posando le chiavi sul mobiletto vicino alla porta di ingresso, vide il portafoglio ed il telefonino e si disse ad alta voce: “Vaglielo a dire, ora, a quella peste impertinente, che la mia sbadataggine mi ha evitato di essere derubato come gli altri al parco!” Era ancora lì che si gongolava della fortuna avuta, quando si accese il display del cellulare ed apparve la foto di suo figlio, mentre una musichetta fastidiosa e squillante riempiva l’ambiente e le vibrazioni rischiavano di farlo cadere. “Papà, finalmente! Si può sapere che fine hai fatto? Ti avrò chiamato una dozzina di volte, mi stavo preoccupando!” “Ciao Marcelluzzo, ti voglio bene anch’io. Come stai?” “Fai pure lo spiritoso, adesso? Stavo uscendo dall’ufficio per venire a vedere se stavi bene, quando mi ha chiamato Giovanna e mi ha detto che la figlia ti aveva appena parlato… Hai lasciato di nuovo il telefono a casa?” “Per fortuna sì.” “Se ti disturbo tanto, scusami, non ti chiamerò più.” “Ma no, che hai capito, è che stamane al parco c’è stato un borseggio collettivo ed io mi sono salvato perché avevo lasciato tutto a casa…” “Che è successo? Ma tu stai bene?” “Si si, non preoccuparti. Non si è fatto male nessuno, a dire il vero non se ne sono neanche accorti! Voi tutto bene?” “Sì papà, nessuna novità, si corre sempre…” “O porca paletta, devo correre anch’io: si sta attaccando il sugo nel pentolino! Ciao Marcelluzzo ti voglio bene!” “Ciao papà, ti voglio bene anch’io.” Quando riagganciò il telefono, Marcello si immaginò il padre che era rimasto immobile lì dove aveva risposto, come quando i telefoni erano fissi ed un filo li legava al muro, e sorrise mentre scuoteva la testa bonariamente sconsolato.
Il sugo non si era bruciato troppo, ma si accorse che non aveva ancora messo l’acqua per la pasta a bollire. Rimediò subito, lamentandosi mentalmente contro tutte le distrazioni che comportano le persone che tenevano a lui. Ci aveva messo alcuni mesi ad abituarsi a vivere da solo, a smettere di apparecchiare per due scordando che Marianna non avrebbe più mangiato con lui o a pensare “questo devo raccontarglielo appena torna!”, ed ora non riusciva ad immaginare di vivere con altri intorno a dettargli i ritmi e gli impegni. Voleva prendersela con qualcuno, così accese il televisore e mise il telegiornale per sfogarsi imprecando contro i politici. Se la gente non lo considerava il classico vecchio burbero che brontola contro tutti e per tutto era grazie a questa valvola di sfogo. Spesso avrebbe voluto avere un telecomando speciale che cancellasse le persone dalla tv, che li facesse sparire nel nulla come se non fossero mai esistiti. Se lo avesse avuto, probabilmente avremmo una classe politica meno intrallazzona e bugiarda, ma purtroppo si doveva sorbire questi camerieri della finanza e limitarsi ad inveire da solo.
Il caffè, in realtà più orzo che caffè per non risvegliare la gastrite, lo prese in poltrona, con il libro che si portava dietro da quasi un mese visto che, cinque minuti dopo aver svuotato la tazzina ed eliminato il rischio di rovesciarla, le palpebre gli calavano sugli occhi come una persiana con sopra un biglietto “CHIUSO PER PENNICHELLA”. Pallino, il gatto con le palle sulla schiena ma non fra le gambe, gli saliva in grembo e si abbandonava anche lui alla stessa attività, la sua preferita. Il che favoriva il suo lento risveglio, un’ora dopo, accarezzandolo ancor prima di aver aperto gli occhi.
Il pomeriggio lo passò fra il bar sotto casa, dove ordinava sempre il solito succo di frutta alla pera che si faceva durare almeno per un’ora, per poi spostarsi alla vicina sala corse dove scommeteva solo ed esclusivamente sulla Tris delle 18, ignorando (o facendo finta di farlo) che adesso ce n’era una ogni ora. Non era mai stato un giocatore compulsivo, come si dice ora, nè aveva mai avuto il vizio del gioco, come avrebbe detto lui. Era un rito, un pretesto per ritardare il rientro a casa quando lavorava, per avere uno spazio per sè quando la sua Marianna era viva, per incontrare il suo amico Giorgio ora che era in pensione e solo. Ogni tanto, ma sempre meno di frequente perché… non c’era un perché tranne la pigrizia e l’abitudine, andavano al centro anziani per una partita a tresette o a biliardo. Da giovane era stato ammirato per la sua bravura a carambola e a boccette, ma ora non aveva più quel desiderio di dimostrare a tutti che era il più forte, aveva perso la cazzimma e giocava raramente e solo per passare il tempo. Il tresette era meno impegnativo, la responsabilità di una sconfitta veniva distribuita fra la malasorte, la scarsità delle giocate del compagno e la fortuna degli avversari, e pagare il giro di aperitivi costava più in denaro che in orgoglio. Inoltre, cosa non trascurabile, a tresette si giocava seduti.
Verso le 19 tornò a casa, pantofole e pigiama ancor prima di cena, oggi aveva lo spezzatino al sugo residuo del pranzo, poi qualche telefilm poliziesco di quelli che non comportano alcun tipo di partecipazione o riflessione, infine a letto prima di mezzanotte. Non faceva mai programmi per il giorno dopo, non pensava mai al futuro. Le giornate erano tutte uguali, perché distinguerle con programmi o aspettative? Scorrevano sempre alla stessa velocità indolente, senza brividi o accelerazioni, a che sarebbe servito contarle se non a farlo sentire più vicino alla fine? Si addormentò con la mente libera, senza sapere e senza chiedersi se sarebbe stata l’ultima volta o l’ennesima.
Scritto inedito di clacclo. Riproduzione vietata.

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