La lettera

La lettera

“Tu dici spesso che sono bravo con le parole, che dovrei sfruttare il mio talento, eppure mi riesce così difficile trovare le parole per dire quello che ho dentro, quello che penso. Credi che io non sappia cosa voglia dalla vita, che non sappia nemmeno chi realmente sono. È strano, me lo chiedo anche io, ogni giorno. Ogni giorno mi domando se sto facendo quello che voglio o mi sto adagiando su scelte comode, magari fatte da altri. Mi chiedo spesso se le spiegazioni che do alle mie scelte siano veramente tali o sono giustificazioni di comodo. Cerco di essere presente in ogni momento, di essere consapevole di quello che faccio. Poi, capita che scopra di essermi sbagliato nelle interpretazioni, di accorgermi di non aver considerato un sacco di cose, di averne date per scontate delle altre… Sono sempre disposto a riconoscere di essere in errore, anche se mi viene fatto notare dagli altri, perché ci lavoro su ogni giorno, perché odio ripetere due volte gli stessi errori.

Chi sono? Questa è un’altra bella domanda a cui cerco di rispondere ogni giorno. Sono una persona che cerca l’armonia, la serenità. Mi hai detto che mi sono isolato in campagna per fuggire dal confronto con gli altri e dalle responsabilità. Volevi ferirmi, e ci sei riuscita. Ma la realtà dei fatti è che volevo talmente isolarmi da aprire una libreria in paese! La realtà dei fatti è che ho scelto uno stile di vita che non sono disposto a cambiare. La natura, per me, deve essere una presenza essenziale del mio habitat. Questo non vuol dire che la casa non possa essere frequentata continuamente o che io non possa uscire. Frequento poche persone perché sono poche le persone che sopporto e ancora meno quelle che mi sopportano, ma non giudico gli altri se fanno scelte diverse dalle mie. Le persone che non tollero sono quelle che non inseguono i loro sogni, quelle che si sono rassegnate all’idea di vivere sacrificandosi per gli altri (in tutti i sensi, compreso temere il giudizio dei genitori…). Forse perché mi ricordano un lato di me che tento di negare, che mi fa soffrire di più, quello che chiamo mentalità da impiegato statale. In realtà io non mi lascio condizionare tanto dai giudizi altrui, anche se cerco sempre gratificazioni e conferme, è più la paura di fare brutta figura, di deludere le aspettative, di non farcela. E questo dipende da una mentalità in cui vige la regola che chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che lascia e non sa quello che trova, una mentalità generata dalla sicurezza del posto fisso e dalla paura dell’autorità. Per me l’autorità è incarnata dallo sguardo deluso di mio padre che mi sognava sistemato ed ancora si preoccupa per il mio futuro, senza scordarsi di stroncare sul nascere ogni mia proposta o entusiasmo col suo fatalismo pessimista. Il posto fisso, invece, è mia madre: sempre pronta ad aiutarmi (questo va bene), è anche solerte nel prevedere qualunque mia esigenza e scegliere per me prima ancora che io sappia di avere un’esigenza ed una possibilità di scelta. Questo, unito al suo immenso amore materno per il primogenito maschio, fanno sì che sia molto invitante il cedere qualunque responsabilità e potere decisionale a qualcuno che farà tutto il lavoro (sporco e non) per te. La chiamano pigrizia, ma è un comportamento naturale, soprattutto se vieni allevato così.

Messa così, sembra che io non abbia responsabilità, che la colpa di tutti i miei errori dipenda dagli altri. Non penso che sia così, almeno da quando ho questa consapevolezza. Prima potevo appellarmi alla psicanalisi, ora sono responsabile delle mie scelte. Anche se ho paura e sono pigro, nessuno mi impedisce di agire e superare la paura! È tutto nelle mie mani. Le guardo, queste mani, e ci vedo i calli, le schegge, i graffi, i tagli che mi faccio da nove anni per curare il mio terreno, i miei alberi, il mio orto. Guardo le mani e penso che dieci anni fa vivevo in città e non avevo mai fatto un lavoro di campagna, guardo fuori e penso a quante cose ho imparato partendo da zero. Questa è stata una mia scelta, lavorare la terra anziché lavorare per uno stipendio. È stata una scelta coerente con i miei bisogni e di cui sono ancora convinto. In questi 9 anni ho provato anche ad inseguire un sogno, la libreria. Per quale motivo dovrei sentirmi un fallito? Perché ora ho difficoltà economiche? Non le ho sempre avute, però. Le ho da 3 mesi, da quando sono single. Non mi hanno ancora staccato nessuna utenza, quindi in qualche modo me la sono cavata… Certo, dover rendere conto solo di se stessi facilita certe scelte, non lo discuto, ma non sono poche le famiglie che le hanno fatte lo stesso. E quindi, dove sono i miei errori? Finora ho parlato solo delle mie conquiste perché i miei errori sono tutti dovuti al fatto che non sempre vedo le mie conquiste ma, piuttosto, vedo solo quello che non ho. Mi capita di giudicare me stesso con i parametri dell’impiegato statale, dimenticando che io non sono così ma sono solo stato educato così. I miei valori, i miei ideali, le mie conoscenze e le mie esperienze: sono queste le cose che mi hanno portato a vivere così, a fare le scelte che ho fatto. Ho cercato di ascoltare il mio cuore e di essere coerente con il mio pensiero e sono arrivato qui. Certo, avrei potuto fare di più e meglio, ma ho anche scelto di avere tempo libero dal lavoro, ho scelto di avere la possibilità di essere pigro, di assecondare il mio fisico e il mio umore. E poi, non sempre c’è stata la possibilità di fare le cose, sia in termini di impegni che economici.

Ma ci sono momenti in cui è come se vedessi il negativo di una pellicola, in cui vedo tutto nero e solo quello che mi manca, lamentandomi della mancanza senza fare nulla per colmarla. In questi momenti, prevale il senso di inadeguatezza, la mancanza di fiducia nelle mie possibilità, mi paralizzo e riesco solo a lamentarmi…

Sono quindici anni che scrivo queste cose. Ho riletto il diario ed ho scoperto che ho fatto queste considerazioni, o analoghe, già varie volte. Ogni volta ho sempre pensato e promesso di aver superato le paure. Anche stavolta credo di aver raggiunto un ulteriore livello di consapevolezza, mi sento sereno, tranquillo e fiducioso ma non faccio nulla lo stesso. Aspettare il momento giusto per fare le cose è una strategia vincente o il mio istinto mi sta solo facendo perdere tempo e rimandare? Passare le giornate a ragionare, ad analizzare, a farsi domande e a cercare risposte come va considerato? È un’attività considerata lecita o è una perdita di tempo, un rimandare l’azione? In altre parole, devo lasciarti in pace o farmi vivo? Ecco, vedi cosa intendo? Non riesco a prendere una decisione e lo chiedo direttamente a te! Non corro il rischio di prendere la decisione sbagliata, piuttosto non prendo decisioni… Questa paura, questo blocco, mi vengono solo con le persone importanti, quelle da cui vorrei essere amato e accettato. Non è la prima volta che una ragazza mi mette in soggezione, mi fa sentire inadeguato, non all’altezza. Ovviamente non è quasi mai così, ma non me ne rendo conto mai prima di aver rovinato tutto…

Anche ora, mi sto aprendo o mi sto, in qualche maniera, giustificando? Di sicuro sono riuscito a dire solo un quarto delle cose che avrei voluto dire. Avrei voluto… un verbo e un modo verbale che non devo più usare: avrei voluto dirti/fare cose, vorrei dirti/fare… NO! Ho fatto quello che sentivo di fare al momento, giusto o sbagliato che si sia rivelato io ci ho messo buone intenzioni. E non vorrei, voglio! Vorrei implica l’impossibilità di ottenere le cose da soli o, addirittura, la rinuncia preventiva del vorrei ma non posso… NO! Lo ripeto! Non voglio vivere così. Ho imparato ad accettare il passato per quello che è stato e non è più, ad accettare gli errori miei ed altrui senza colpevolizzare nessuno ed evitando di ripeterli. Ho imparato a vivere il presente facendo quello che mi dice il cuore e mi fa stare bene, a vivere per me senza sensi di colpa nei confronti di mio padre (mi viene in mente lo sguardo di disapprovazione quando ci incontravamo la mattina, io che rincasavo e lui che si alzava… tipico rapporto figlio/padre pre-sessantottino!). Però, poi, cado in questi baratri profondi e neri in cui tutto questo svanisce. La consapevolezza di quello che sono, che so fare e che ho fatto scompare e mi vedo con gli occhi severi di mio padre e mi sento di non essere all’altezza di nessuno, di essere una delusione annunciata… Questo capita, chiaramente, nei momenti in cui sono più fragile, in cui stento a trovare gratificazioni a quello che faccio, quando lo sforzo non ottiene risultati. Insomma, mi deprimo nel senso clinico del termine: entro in depressione. Ne sono sempre uscito da solo ed ogni volta ci ho messo sempre meno tempo. La novità è che stavolta sembra che ne abbia anche individuato la causa, abbia capito l’origine della paura. Questo mi ha fatto cambiare? Mi ha fatto prendere una qualche iniziativa? Mi ha fatto compiere qualche scelta o decidere qualcosa? Non aver paura di fare una cosa e non farla lo stesso, cosa significa? Nascondo la paura, mi auto-illudo? Se devo dar retta al diario, non sono cambiato molto negli ultimi 15 anni, ma sarà vero o è solo la considerazione che ho di me che è rimasta invariata nonostante i tanti risultati positivi ottenuti negli anni? Magari è migliorata la qualità delle persone che mi circondano, magari è migliorata la qualità delle relazioni o magari è migliorata solo la qualità della mia vita e, di conseguenza, anche gli ostacoli sono più grandi e continuo a sentirmi inadeguato. Quel che so è che sono consapevole del mio valore, cosa che quindici anni fa (e neanche dieci) non avevo. Ho imparato più cose nuove in questi dieci anni di quante ne avevo imparate nei venti precedenti e questo mi rende orgoglioso e fiero di me: trovo che sia importante non perdere mai la capacità di imparare e la curiosità per farlo. Nelle relazioni interpersonali ho maturato una maggiore consapevolezza e attenzione agli altri, anche se questo non mi impedisce di essere cieco con chi mi sta vicino. Diciamo che quando sono coinvolto non sono immediatamente obbiettivo ma riesco a cambiare idea… Insomma, alla fine sembra che quindici anni fa avevo una generica paura che mi paralizzava, ora so che ne conosco il motivo e non mi sento più paralizzato. Certo, non sentirsi paralizzato e non essere paralizzato non sono la stessa cosa, ma basta saperlo e verificare ogni volta che non faccio qualcosa. Ecco una bella illuminazione! Vedo sempre quello che NON faccio e non considero mai abbastanza ciò che in realtà faccio. Stare qui a parlare con te invece di decespugliare è una perdita di tempo o un impiego del tempo in maniera immateriale? Per me la qualità delle relazioni è importante più di qualunque cosa pratica, emergenze mediche a parte. Spiegarmi, discutere, cercare di capire, per me non sono mai perdite di tempo ma un’esigenza primaria che non posso rimandare, non posso fare finta di nulla e andare avanti.

Per sempre tuo, F.

Quando finì di leggere la lettera che suo padre aveva scritto a sua madre, molto prima che lei nascesse, decise di chiamare Mario e lasciarlo.


Scritto inedito di clacclo. Riproduzione vietata.


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