Marina*

Sono qui, davanti a questo schermo, che cerco di scrivere. Di tutti i lavori che faccio, questo è l’unico che faccio con piacere, eppure sono seduta a fissare una pagina bianca. Questa mattina ero al parco con mia figlia ed ho assistito al borseggio del secolo, cioè non ho realmente assistito perché ero lontana (per fortuna) ma il trambusto che si è scatenato dopo ha attirato la mia attenzione: ad una decina di persone, forse distratte da una coppia che litigava, sono stati rubati portafogli, telefoni, tablet e cose così. Ho pensato, quindi, di scrivere qualcosa di divertente su una banda di scaltri ladri di strada, ma la mia testa gira a vuoto, è come ovattata. E’ come quando qualcuno ti sta parlando e tu, non solo non lo senti, ma neanche ti accorgi della sua presenza. Solo che a parlare sono io. Ho talmente tante cose in sospeso, da elaborare, da metabolizzare, che il mio cervello è distratto da se stesso.

Gli ultimi anni, e ormai sono quasi otto, hanno minato le fondamenta di una vita che avevo cominciato a costruire quando di anni ne avevo solo quattordici ed ho incontrato mio marito. Ne sono passati trentuno e lui è ancora al mio fianco, anche se non sono sicura di esserci io, al suo fianco. La mia discesa verso l’abisso, verso il caos che ora mi pervade, è iniziata quando ho incontrato Lui, che per comodità chiamerò Z, come l’ultima lettera dell’alfabeto, perché dopo di lei/Lui si ricomincia da capo: ABCDE…

Lo incontrai ad una cena con altri colleghi di lavoro, anche loro scrittori. Gli bastarono cinque minuti per entrare nella mia vita e sconvolgerla. Ero sposata da circa dieci anni, da due ero diventata mamma, e non pensavo certo di innamorarmi di uno sconosciuto. Anzi, ero convinta di essere già innamorata, felice e realizzata, anche se, oggi, riesco a vedere le crepe che iniziavano ad incrinare il rapporto con mio marito, che chiamerò A come l’Aleph di Borges, “il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della Terra, visti da tutti gli angoli”. Questo era stato fino a quel momento per me: la persona in cui “tutto lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse”. Eravamo cresciuti insieme, avevamo esplorato il mondo ed i nostri corpi con la stessa passione e con la stessa curiosità. Avevamo dato corpo alle nostre fantasie più recondite e più estreme e, per farlo, avevamo infranto molti tabù. La nostra complicità era tale da permetterci di sperimentare il sesso fuori dal recinto stretto della coppia, senza mai smettere di esserlo. Ci siamo concessi ad altri, nel senso che io ho concesso ad altre donne di andare con lui e lui ha concesso ad altri uomini di venire con me, ma anche inteso come concedere all’altra metà di godere liberamente dei suoi desideri e dei suoi appetiti. Insieme abbiamo esplorato la nostra sessualità da individui liberi ma uniti, e questo ha creato un legame che ancora non si è spezzato, anche se rimane attaccato ad un filo. Forse è stato proprio questo a farmi innamorare di Z: avevamo finito le cose da scoprire insieme ma avevamo ognuno ancora tanto da scoprire del mondo, solo che gli interessi non erano più gli stessi. Io ho una fame intellettuale che A non ha mai avuto e, con il passare del tempo, con la routine e l’abitudine, ci siamo ritrovati uniti sì, ma lontani, perché avevamo fatto insieme solo una parte della strada e adesso era quasi finita. Non c’era stata solo nostra figlia a calmare i nostri ardori, ma anche un intervento all’utero che avevo dovuto subire. Questi due eventi ravvicinati misero un freno bruscamente ai nostri esperimenti sessuali ed ora rimanevamo noi due, un legame più che ventennale, una figlia e poco o niente da dirci, da fare insieme o da progettare. All’epoca credevo che ci fosse ancora l’amore a tenerci insieme, ora sospetto che sia solo un grande affetto, come con un amico d’infanzia, quale effettivamente è, o come il fratello che non ho mai avuto. Non so più definire il sentimento che ci lega, che mi lega a lui. Continuo a chiamarlo amore, e ci credo anche, quando lo dico. Ma, dentro di me, so che quello che ho provato per Z non l’ho mai provato per lui. Mai.

Z, già, l’inizio della fine. Non era solo il suo spessore intellettuale ad attrarmi, c’era anche una strana energia che emanava dai suoi occhi, dal modo di parlare, di gesticolare, di dominare lo spazio, l’ambiente, le persone e me. Quel magnetismo si trasformò in possesso la sera stessa. Divenni SUA in una camera di un albergo romano, lontano da casa, dalla mia famiglia e dal mondo intero. I cinque anni che seguirono, la mia mente li passò a Roissy, in compagnia di O e delle sue amiche. Ero completamente in balìa dei desideri della sua mente contorta. La mia anima libera e libertina aveva trovato finalmente il suo domatore, il suo dominatore. E non era solo la mia anima ad essere in suo possesso, ma anche il mio corpo, ero diventata un’automa folle d’amore e con l’unico scopo di soddisfare la volontà del mio padrone. Ero a sua disposizione ogni volta che mi voleva, anche se lui era a Roma ed io a Milano. Gli bastava un messaggio di poche parole ed io mi ritrovavo a sfilarmi le mutandine di nascosto o a toccarmi chiusa in un bagno e a mandargli foto e video dei miei orgasmi. Mi regalò anche un vibratore che poteva gestire da remoto, così che potesse farmi godere nei momenti e nei luoghi più disparati ed imbarazzanti, incurante delle persone che avevo intorno in quel momento, ed io non ho mai esitato un istante ad indossarlo ogni volta che me lo ordinava.

Era sposato e con figli anche lui e questo aumentava il senso del proibito, come se ce ne fosse bisogno. Entrambi usavamo la scusa del lavoro per fuggire dalle nostre gabbie domestiche. I nostri incontri erano esclusivamente in alberghi, a Roma, a Milano o in giro per l’Italia, rendendo il tutto quasi irreale: ogni riferimento alla quotidianità, alle nostre vite famigliari era completamente assente e vivevamo in uno spazio-tempo tutto nostro. Mi sentivo come in un sogno ricorrente ma, per continuarlo, non dovevo addormentarmi, mi bastava una vibrazione del telefono ed ero catapultata immediatamente in un mondo di lussuria e sottomissione volontaria. Non so cosa fosse realmente a spingermi a farlo, forse il desiderio inconscio di essere imbrigliata, io cavallo brado, o forse il bisogno insoddisfatto di sentirmi non giudicata ma apprezzata da una figura paterna, perfino incestuosamente desiderata. Sta di fatto che avevo concesso a Z il controllo completo del mio corpo e della mia mente. E lui se ne approfittava, giocava con me come con una bambola, decideva cosa dovevo fare, quando e persino con chi. Ero la sua Barbie e mi piaceva un sacco, lui, però, non era il mio Ken, no. Lui era il mio Big Jim, forte, determinato, sicuro di sé e senza l’ombra di un dubbio o di una paura.

Il suo dominio non si limitava al mio corpo, mi scopava anche il cervello: una volta mi fece entrare bendata nella sua stanza e mi fece credere che ci fosse altra gente venuta apposta per godersi lo spettacolo. Fu uno degli orgasmi più intensi che ricordi, e non importa se, alla fine, in quella stanza non ci fosse nessuno. Ero disposta a credere a qualunque cosa mi dicesse, gli credevo persino quando diceva di amarmi. A questo punto mi era entrato nella testa. Avevo perso ogni giudizio, ogni senso critico e ogni senso della realtà.

Ma non c’erano solo il sesso e i giochi mentali, c’erano le anche visite ai musei e alle mostre d’arte (dove ero io ad eccitarmi brutalmente di fronte alla bellezza di certe statue e, sì, lo trascinavo in un bagno per avere una soddisfazione immediata), i pomeriggi passati a leggere insieme, ognuno un libro, e poi raccontarcelo, le cene in cui parlavamo di fisica quantistica o di filosofia trascendentale, le passeggiate notturne per le strade deserte della città, abbracciati o mano nella mano. Ero innamorata sul serio e credevo che anche lui lo fosse, per questo gli chiedevo, pretendevo, che lasciasse sua moglie e la sua famiglia per me, anche se io non ero disposta a lasciare la mia. Volevo che fosse solo mio. Era proprio un’orgia del potere!

Il bel sogno si trasformò in incubo quando mio padre stette male. Tre mesi di terapia intensiva, di notti passate in ospedale con lui, di giorni passati a sostenere mia madre e a sperare. Non ero più disponibile ai suoi capricci come prima, non ero più quella che scappava dall’albergo dove era in vacanza con la sua famiglia solo per incontrarlo furtivamente in un parcheggio, non ero più il suo giocattolo, la sua bambolina, e lui non aveva più bisogno di me. Mentre A era sempre al mio fianco, mi sosteneva, faceva le notti al posto mio per concedermi qualche ora di sonno su di un letto vero, Z mi sostituì facilmente con una, serve dirlo?, più giovane e disponibile. Nel momento in cui avevo più bisogno di sentirlo al mio fianco, lui non c’era. Mio padre ritornava in vita ed io mi sentivo morire. Mi sento stupida a ripensarci ora che potrei davvero morire…

I due anni successivi per me furono devastanti: a casa dovevo far finta che nulla fosse cambiato, non potevo condividere con nessuno il mio dolore segreto ma, anzi, dovevo essere io a sostenere A che, in quel periodo, aveva difficoltà sul lavoro. Ero come una roccia friabile: all’apparenza dura e resistente ma che si sgretola facilmente appena viene schiacciata fra due dita. E quelle dita arrivavano, invisibili, ogni notte, quando tutti dormivano ed io rimanevo alzata con la scusa di dover lavorare. Nel buio e nella solitudine cedevo al mio dolore e cercavo vanamente consolazione online. Ho provato anche a verificare la teoria del chiodo che scaccia chiodo, ma uno spillo non potrà mai cacciare un chiodo da carpentiere. Il mio unico sfogo fu il cibo, la mia condanna fu vedere il mio corpo lievitare, la mia espiazione furono gli esercizi che mi costrinsi a fare quotidianamente per ritrovare le mie forme e, con loro, me stessa.

Non si può uscire da un inferno senza passare per il purgatorio ed il mio purgatorio fu il ritorno di Z, quando ormai ero riuscita a disintossicarmi dalle ultime scorie che mi aveva lasciato dentro. Si fece vivo un giorno, senza preavviso: la moglie lo aveva sbattuto fuori da casa perché aveva scoperto la sua infedeltà ed ora viveva dalla mia sostituta. Lui, che aveva la mania del controllo e del possesso, si trovava senza controllo e alle dipendenze (anche economiche, visti gli alimenti che era costretto a versare) di una donna. Era troppo per il suo ego, quindi, disperato, tornò a farsi sotto con la speranza di ritrovare la me sottomessa e dipendente che aveva lasciato. Per me fu quasi una rivalsa: ora era lui che aveva bisogno di me ed io lo tenevo in pugno. Ma non avevo alcuna voglia di tornare con l’uomo che mi aveva sostituita, se non altro per quel po’ di orgoglio che era tornato a riaffiorare in me. I suoi messaggi, da autoritari, imperativi, virili, erano diventati piagnucolosi, elemosinanti, imploranti. Ed io godevo ogni volta che respingevo le sue suppliche di rivederci, senza, però, dire nulla di definitivo che lo facesse desistere. Lo tenevo sulla corda, lo facevo soffrire scrivendo delle nostre avventure e mostrando le mie foto su un blog che avevamo aperto insieme ed ora era diventato il mio sfogatoio personale e la mia sublime vendetta: mi aveva posseduta totalmente e in segreto ed ora io mi rendevo pubblica, mi condividevo con altri. Il cilicio degli apprezzamenti degli sconosciuti, il loro desiderio, lo puniva e lo eccitava alla stessa maniera. Più mi donavo agli altri, più lui mi desiderava e più io lo respingevo con fermezza. Ora a Roissy c’era lui. Adesso ero io a fottergli il cervello.

A, nel frattempo, ignaro del mio tormento, sprofondava in una routine che solo il lavoro differenziava da quella di un adolescente: divano, tv, videogiochi e nessuna faccenda domestica. Il sesso fra noi aveva perso la verve che aveva avuto per vent’anni, io lo cercavo solo quando la malinconia mi spingeva a trovare un po’ di calore umano fra le sue braccia, altrimenti ero costretta a ricorrere ai ricordi con Z per riuscire ad eccitarmi e dissimulare la mia lontananza mentale. Ma non ha mai smesso di amarmi, anche se si è adeguato al cambiamento senza opporre nessuna resistenza. Ed io, del resto, non riesco ad immaginarmi senza di lui dopo tutti questi anni. E’ la mia famiglia.

Ma ora c’è questo fottuto tumore al seno che mi fa rimescolare le carte e ripensare al tutto da una prospettiva diversa. In primo luogo, non sapendo quanto tempo mi resta, non voglio sprecare un solo attimo con pensieri inutili verso persone inutili: ho troncato ogni tipo di rapporto con Z, gli ho detto che non voglio più sentirlo né, tantomeno, vederlo, e già mi sento meglio, finalmente libera(ta), da lui, dalla rabbia, dal dolore e dalla vendetta; in secondo luogo, di fronte all’incertezza della malattia, ho bisogno di avere certezze su quella che è stata la mia vita, il classico bilancio che si fa in punto di morte. Anche se la prognosi non è così drammatica ed ho buone speranze di cavarmela, il semplice fatto di avere il famigerato “brutto male” mi fa sentire già con un piede nella fossa e mi fa tirare le somme di quello che ho fatto nella vita ma, in particolare, mi spinge ad analizzare tutte le motivazioni che mi hanno portato a fare le scelte che ho fatto e che non ho fatto.

E così, riavvolgendo il nastro e ripartendo dalla mia infanzia, solo ora mi rendo conto che sia A che Z hanno una cosa in comune: il rapporto che ho sempre avuto con mio padre. E’ così banalmente freudiano che quasi mi sento ridicola solo a pensarlo! Però, a ben vedere, è proprio così: il carattere ribelle ed indipendente che è sbocciato precocemente insieme alla mia femminilità non è mai stato digerito da mio padre, che ha tentato inutilmente di reprimerlo in tutti i modi (mentre mia madre è sempre stata consolante, senza mai prendere le mie parti, però), e questo mi ha spinto prima fra le braccia di A e poi di Z, anche se con finalità opposte.

Infatti, me ne rendo conto solo ora, A per me ha rappresentato la sconfitta di tutti i tentativi di mio padre di controllarmi: lui non si limitava ad amare il mio spirito libero, ma è arrivato persino ad incitarlo, ad alimentarlo, concedendomi tutte le libertà, in primo luogo sessuali, di cui avevo bisogno. Più mio padre mi chiudeva in casa, più mi impediva di vederlo, più io lo cercavo e me ne innamoravo. Ovviamente, se stiamo ancora insieme, c’è anche dell’altro, che però è proprio quello che mi ha impedito di avere uno sguardo lucido sui motivi iniziali che mi hanno spinto a scegliere lui anziché un altro ragazzo.

Con Z, invece, il discorso è esattamente l’opposto: in lui ho trovato la capacità di domarmi che non ho mai trovato in mio padre, il quale non ha mai avuto la forza psicologica necessaria per piegarmi ai suoi voleri, anche perché c’era sempre la mediazione di mia mamma a farlo rinunciare o a consolarmi e darmi la possibilità di rimanere sulle mie posizioni potendo confidare, comunque, sul suo affetto. Quel potere di inchiodarti con un solo sguardo, dettato dal carisma, mio padre non l’ha mai avuto, piuttosto diventava per me una sfida a fare il contrario a tutti i costi. Z, invece, quello sguardo me lo ha rivolto la prima volta che mi ha vista ed io non ho potuto fare a meno di diventarne succube. Il suo potere non consisteva né nell’autorità del genitore né nella forza fisica, ma nasceva da un desiderio di controllo, di possesso, che trovava forma in un magnetismo carismatico che gli permetteva di dominare psicologicamente chiunque avesse di fronte. Aveva, all’apparenza, una tale forza interiore che capivi subito che non avrebbe mai ceduto finché non avesse ottenuto ciò che voleva. Voleva la mia libertà ed io, che desideravo inconsciamente che qualcuno avesse quella determinazione che mi era mancata in famiglia, non chiedevo altro che di diventare il suo giocattolo, la sua schiava, sua in ogni modo che avesse voluto. Ecco cosa è stato a spingermi a cedere il controllo ad un’altra persona: avevo trovato quello che avevo sempre desiderato da mio padre, che fosse forte ed inamovibile, che non cedesse ai miei capricci, che avesse ancora quell’autorità imperiosa che aveva finché ero bambina ma che avevo sconfitto con la mia autonomia.

Ora c’è il cancro ad avere il controllo, un controllo a cui non posso ribellarmi ma che mi spinge a cedere altri scampoli di autonomia ai medici che mi hanno in cura. Adesso che ho perso tutta la libertà che avevo e che combattevo allo stesso tempo, sempre alla ricerca di un limite al mio agire che finora avevo trovato solo in una forma distorta e malata, come un bambino a cui servono le regole per sentirsi libero di esplorare il mondo senza paura, solo ora mi sento finalmente libera e serena.

* Ispirato da una storia vera


Scritto inedito di clacclo. Riproduzione vietata.


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